Il chiamato all’eredità, la rappresentazione e l’accettazione
Il chiamato all’eredità è colui il quale viene istituito erede nel testamento, qualora la successione sia testata, ovvero colui il quale sia chiamato secondo le norme di legge, nel caso in cui il testamento manchi in tutto od in parte.
Il chiamato resta tale sino al momento dell’accettazione e, una volta accettato, è considerato erede sin dal momento dell’apertura della successione, avendo l’accettazione dell’eredità un effetto retroattivo e non essendovi soluzione di continuità tra la situazione giuridica del defunto e quella dei suoi eredi.
Venendo alla rappresentazione, essa fa subentrare i discendenti nei diritti riconosciuti da legge o testamento ai loro ascendenti, qualora questi non vogliano, ad esempio perché rinunzianti, o non possano, ad esempio perché deceduti od indegni, accettare l’eredità od il legato.
I soggetti nei cui confronti opera la rappresentazione sono i figli (anche adottivi) ed i fratelli del defunto, e non altri.
Qualora il chiamato intenda accettare l’eredità, abbiamo visto che potrà farlo mediante l’accettazione espressa, vale a dire una solenne dichiarazione resa in atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata, o mediante l’accettazione tacita, di cui già si è discorso, che consiste nel compimento, da parte del chiamato all’eredità, di un atto che presuppone implicitamente e necessariamente la sua intenzione di accettare, quale ad esempio la vendita di un bene ereditario.
Parimenti, se il chiamato all’eredità, che è nel possesso dei beni, non compie l’inventario nel termine di tre mesi dall’apertura della successione e la successiva dichiarazione di accettazione beneficiata, egli è considerato erede puro e semplice.
Semel heres, semper heres, con ingresso irrevocabile ed irretrattabile in quella che era la posizione giuridica del defunto, con conseguenti oneri ed onori, dovendo egli rispondere, seppur pro quota in caso di concorso con altri coeredi, dei debiti dell’eredità.
L’accettazione dell’eredità senza il beneficio dell’inventario comporta l’assoluta confusione tra i patrimoni del de cuius e dell’erede, con la conseguenza, non di poco momento, che in caso di damnosa hereditas l’erede risponderà anche con il proprio patrimonio personale.
Ricordiamo infine quanto detto in un altro articolo apparso nella raccolta, circa il fatto per cui la la rinuncia all’eredità, effettuata dopo la scadenza del termine di cui all’art. 485 c.c. dal chiamato all’eredità che si trovava nel possesso dei beni ereditari, non è configurabile come rinuncia ad effetti traslativi, posto che alla scadenza del termine per l’effettuazione dell’inventario il chiamato all’eredità è considerato erede puro e semplice, con la conseguente inefficacia della rinuncia (Cass. 6275/17).
E, infine, volentieri ancor più ricordiamo il discutibilissimo e pericolosissimo orientamento per cui “in tema di successioni legittime, il chiamato all’eredità nel possesso dei beni ereditari ha l’onere di redigere l’inventario entro il termine di tre mesi dal giorno dell’apertura della successione, anche se sia di grado successivo rispetto ad altri chiamati (!!!), poiché, quando l’eredità si devolve per legge, si realizza una delazione simultanea in favore di tutti i chiamati, indipendentemente dall’ordine di designazione alla successione” (Cass. 5152/12).
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